L’EROS NELLA POESIA GRECA E NELLA LIRICA CLASSICA GIAPPONESE

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L’EROS NELLA POESIA GRECA E NELLA LIRICA CLASSICA GIAPPONESE

Ο  Έρως στην  αρχαία ελληνική ποίηση και στη γιαπωνέζικη λυρική ποίηση

“Il poeta Eros lo ammaestra, anche se prima era privo di arte.”
(Eur. Sten. fr. 663 Nauck²)

Questa citazione euripidea rivela come, tra le varie passioni umane, l’amore sia quella che maggiormente faccia scaturire nell’uomo la tendenza alla poesia. L’affermazione è vera sia per il mondo greco che per quello giapponese. Si pensi, ad esempio, che il capolavoro della narrativa nipponica d’età Heian, il Genji Monogatari, non è altro che un lunghissimo romanzo dedicato interamente alla complessa vita amorosa del principe Genji. Per comprendere i tratti peculiari di come veniva vissuto nel Giappone antico il sentimento amoroso bisogna fare alcune considerazioni. Va tenuto presente, infatti, che presso la corte Heian un uomo non poteva liberamente vedere ed incontrare una donna. Come conseguenza di questa rigida pratica troviamo tutta una serie di di regole e comportamenti che sono comuni a tutte le opere in versi ed in prosa dell’epoca. Una donna era oggetto di desiderio per la sua famosa bellezza o per la sua bravura nel suonare e l’uomo, benché volesse avvicinarla, era ostacolato da tendaggi, paraventi, cortine di bambù, numerosi strati di kimono, ancelle fedeli e dame di compagnia che gli sbarravano la strada. Non gli restavano, dunque, che due possibilità: l’invio incessante di poesie, spesso accompagnate da un ramo fiorito, oppure la pratica di spiarne le sembianze attraverso pertugi dietro cortine di bambù. Nonostante tutte queste difficoltà l’innamorato poteva riuscire a passare la notte con l’amata, ma alla mattina se ne doveva andare al primo canto del gallo. Dopo aver attraversato giardini e campi dove l’orlo del kimono si bagnava di rugiada come le maniche della veste della donna si riempivano delle lacrime versate per l’addio dell’amato, l’uomo, appena giunto alla sua dimora, inviava alla donna un waka che lei era tenuta a contraccambiare. Tutta la poesia erotica giapponese descrive questo costante rituale. Si capisce bene, pertanto, che una delle circostanze più importanti che prevedeva la composizione di poesie è proprio il corteggiamento. Ma il waka assolveva anche il compito di mediare i rapporti tra uomo e donna e non era un semplice canto rivolto alle bellezze o al fascino di chi si amava. Questo fatto è particolarmente evidente se consideriamo che non era solo l’uomo a scrivere poesie, ma anche la donna doveva essere particolarmente versata in tale pratica. L’innamoramento, del resto, come abbiamo detto, non scaturiva di regola dalla visione diretta dell’amata, per cui ci si poteva innamorare semplicemente per come una persona fosse abile nel comporre raffinata poesia. Il Kokinwakashū, prima antologia imperiale giapponese completata nel 905 d. C., dedica 5 libri (XI-XV) al tema erotico ed all’interno di essi viene delineato l’intero itinerario amoroso, che va dalla cieca infatuazione, alla passione sofferta non ricambiata, all’ansia di ottenere il primo bramato incontro, alla pena ancora più struggente dopo l’incontro fino al raffreddamento del sentimento amoroso ed alla più totale rassegnazione. Deve essere precisato subito un dato fondamentale che separa nettamente le due produzioni poetiche giapponesi e greche: mentre nella Grecia antica una gran parte di liriche amorose era a carattere omosessuale, la poesia giapponese classica (benché anche in Giappone venissero praticate relazioni omosessuali) canta solo ed esclusivamente l’amore tra uomo e donna. Cominciamo ad esaminare alcune poesie che descrivono gli effetti dell’amore sull’innamorato.
L’intima unione che lega i giapponesi alla natura determina nella poesia nipponica la costante presenza dei fenomeni naturali, i quali servono sia come cornice delle vicende umane sia per rappresentare stati d’animo e condizioni psicologiche. Nel Kokinwakashū l’elemento naturale che rappresenta meglio la forza travolgente di Eros è l’acqua del fiume:

Come l’acqua impetuosa                        Yoshinogawa
del fiume Yoshino che s’infrange         iwanami tataku
alta contro le rocce,                               yuku mizu no
irruente scaturì in me                             hayaku zo hito o
la passione amorosa.                              omoisometeshi…..(XI, 471)1

Lo scorrere incessante dell’acqua del fiume, che è anche simbolo della transitorietà della vita umana, diventa in questo waka del poeta Ki no Tsurayuki l’immagine della passione amorosa, sentimento che scaturisce in maniera fulminea (hayaku) ed è irrefrenabile come lo scorrere dell’acqua (yuku mizu).
Anche Saffo ricorre ad un elemento naturalistico (il vento) per rappresentare la forza irresistibile dell’amore (fr. 47 Voigt):

“Eros all’improvviso mi tormenta (etinaxe moi)
il cuore (frenas), come il vento sul monte tra querce
(os anemos kat oros drysin empeton).”

In questi versi è l’uso dell’aoristo etinaxe a darci l’idea della rapidità con cui l’amore colpisce l’innamorato. Attraverso moduli esiodei2 ed omerici, Saffo, in maniera innovativa, descrive attraverso una semplice ma efficace immagine la forza di quel dio che più tardi Sofocle nell’Antigone (781-801) celebrerà in questi termini:

“Eros invincibile in battaglia, Eros, che ti abbatti su chi possiedi,
che nel dolce volto della gioventù passi la notte, ti aggiri sul mare
tra gli spazi aperti della campagna, nessuno degli immortali
può sottrarsi a te, nessun effimero mortale.
E chi hai in pugno perde la mente.
Tu anche l’indole dei giusti trasformi rovinosamente in perfida,
e tu anche questa contesa fra consanguinei hai suscitato.
Ma trionfa luminoso il desiderio dagli occhi
della sposa, che siede accanto ai principi delle leggi supreme.
Indomabile dea scherza, Afrodite.”

Un waka di Fujiwara no Kachion (XI, 472) attraverso l’immagine di una barca guidata dal vento fa di questo fenomeno naturale un vero e proprio messaggero d’amore:

Anche la barca che va                         Shiranami no
nel mare senza una rotta tracciata     ato naki kata ni
dalle spumose creste dell’onda,         yuku fune mo
può contare solo sul vento                 kaze zo tayori no
come guida verso la meta bramata.   shirube narikeru.

Anche il movimento delle onde del mare si presta a rappresentare in un carme di Ariwara no Motokata lo sconvolgimento del cuore (kokoro) dell’innamorato:

Ancora, e ancora una volta,                   Tachikaeri
torno a struggermi                                 aware to zo omou
per lei che adoro                                    yoso nite mo
da lontano, come le onde                      hito ni kokoro o
spumeggianti al largo.                           okitsu shiranami. (XI, 474)

L’effimera rugiada sul crisantemo, invece, viene usata per indicare la pena amorosa in un complesso waka di Yoshimine no Harutoshi, poeta e calligrafo molto apprezzato a Corte e divenuto monaco (prese il nome Sosei):

Da che sento3 parlare di lei soltanto,             Oto ni nomi
la notte veglio e il giorno                                kiku no shiratsuyu
per l’ardore mi sento morire,                          yoru wa okite
come labile rugiada                                          hiru wa omoi ni
sul fiore di crisantemo                                     aezu kenubeshi… (XI, 470)

Sorprendentemente ritroviamo la stessa immagine della rugiada quale simbolo di Eros in un passo delle Argonautiche di Apollonio Rodio (III 1019-1021), dove il poeta descrive l’irrefrenabile passione di Medea per il greco Giasone:

“(…) si scioglieva (ianeto), inondata da una calda
e profonda tenerezza, come si scioglie la rugiada
sulle rose, quando riceve calore dai raggi dell’aurora
(hoion te peri rodeoisin eerse teketai eooisin iainomene faeessin).”

Tornando alla lirica greca arcaica, dobbiamo menzionare Archiloco, che in tre frammenti (191, 193, 196 West) descrive lo stato psicologico causato dall’incombere violento di Eros in termini decisamente più carnali e violenti rispetto alla delicatezza della lirica nipponica:

“Tale d’amor la passione (filotetos eros) nel cuore avvolta4
profonda tenebra sugli occhi versava,
rubando dal petto la delicata anima (hapalas frenas).”

“Sventurato giaccio dal desiderio (potho),
senza respiro (apsychos), per volere degli dei
trafitto da aspri dolori alle ossa.”

“Amico mio, il desiderio che scioglie le membra (lysimeles) mi doma.”

C. Calame in un saggio dedicato al tema dell’Eros nel mondo greco5 ha fatto notare come nella lirica greca arcaica l’aspetto di Eros maggiormente trattato dai poeti sia proprio quello dell’insoddisfazione, del dolore e della crudeltà. Il discorso è valido anche per la tragedia e l’epigramma. Per quanto riguarda il dramma, basti ricordare la struttura dell’Ippolito coronato di Euripide, rifacimento dello scandaloso Ippolito velato, basato sui nefasti effetti psicofisici della protagonista Fedra innamorata del giovane Ippolito, figlio di Teseo, ostile alla dea Afrodite ed a tutto quello che scaturisce da Eros. L’epigramma ellenistico, invece, depositario di tutta la tradizione letteraria greca, continua a descrivere l’insoddisfazione, la fragilità ed il male provocato dall’amore, una sorta di malattia, arrivando ad assimilarlo alla morte. Si pensi, ad esempio, ad un epigramma callimacheo, contenuto nell’Antologia Palatina (XII 73), dove nel primo distico elegiaco la passione amorosa corrisponde al rapimento dell’anima da due forze opposte: Eros e Ade:

“Metà della mia anima respira, l’altra metà è scomparsa,
rapita da Eros o da Ade, non so bene.”6

Un altro epigramma callimacheo dell’Antologia Palatina (XII, 71) è dedicato, invece, ai riflessi distruttivi sul fisico di chi è vittima di Eros:

“O povero Cleonico di Tessaglia, non ti ho riconosciuto,
in nome del cielo! Che t’è successo, poveretto?
Sei tutto ossa e capelli! T’è capitata la mia disgrazia,
sei nella stessa mia brutta situazione?
Ho capito: anche tu innamorato di Eussiteo; è chiaro,
poverino: l’hai guardato con tutt’e due gli occhi.”7

Questo modo di ritrarre l’amore (Eros=Thanatos) ha come possibile modello alcuni versi di Saffo, la poetessa che ha fatto dell’amore la materia principale del suo canto, nei quali descrive il dramma di amare in termini talmente drammatici da paragonarlo alla morte, o meglio, ad una anticipazione della morte. Il noto carme (fr. 31 Voigt) tramandatoci quasi integramente dallo Pseudo-Longino (X) rappresenta, all’interno della letteratura greca, una delle più lucide analisi che siano mai state fatte sugli effetti fisici e psichici di Eros:

“È un dio per me quell’uomo:
a te di fronte
siede e ascolta da vicino
la tua parola dolce,
il tuo sorriso d’amore. E il cuore
mi sobbalza in petto.
Ti guardo un solo istante
e non ho più voce,
la lingua si spezza, e un sottile
fuoco corre nella pelle,
gli occhi non vedono più nulla,
e rombano le orecchie.
Un sudore gelido mi inonda e un tremore
tutta mi imprigiona, e più verde dell’erba
io sono, e certo poco lontana
dal morire (tethnaken d’oligo ‘pideues fainom’ em’auta).
Ma tutto si può sopportare, perchè…” 8

Questi versi testimoniano molto bene la tesi di Calame, dal momento che la poetessa di Ereso ha voluto descrivere lo sconvolgimento fisico e psichico che produce la presenza della persona amata, un turbamento così intenso da portare via la voce, causare la febbre e provocare una sorta di morte apparente della poetessa. Queste immagini saffiche, benché siano presenti in componimenti diversi e di differenti autori, sono stati argomento di poesia anche presso i poeti della lirica classica giapponese.
Infatti, la sensazione saffica del calore suscitato dalla passione amorosa (vv. 9-10 lepton pyr) si riscontra in un waka di Fujiwara no Tadayuki, che descrive in termini iperbolici l’ardore amoroso paragonandolo al fumo rovente del Fujiyama:

Al solo pensiero di te,                           Kimi to ieba
che ci vediamo o non ci vediamo,        mimare mizumare
mi brucia un fuoco di brama,                Fuji no ne no
perpetuo come il fumo                         mezurashige naku
sulla vetta del monte Fuj                       moyuru wa ga koi. (XIV, 680)

Ma anche l’attenzione mostrata da Saffo per la voce di chi ama (vv. 3-4 ady foneisas) trova puntuale riscontro in una poesia di Ōshikōshi no Mitsune, amico di Ki no Tsurayuki e compilatore del Kokinwakashū:

Dacché la sua voce udì                  Hatsukari no
di sfuggita, qual canto                    hatsuka ni koe o
delle prime oche selvatiche9,       kikishi yori
i miei pensieri vagano                   nakazora ni nomi
sospesi nell’aria.                            mono o omou kana. (XI, 481)

Allo stesso modo la forte passione capace di sconvolgere l’equilibrio vitale dell’individuo ed assimilata alla morte è stata colta da Kiyohara no Fukayabu in questi termini (XIV, 698):

“Bramare”, chi iniziò         Koishi to wa
a chiamare così                  ta ga nazukekemu
questa passione?                koto naramu
Avrebbe dovuto dire          shinu to zo tada ni
schiettamente: “morire”.  iubekarikeru.

Una poesia anonima (XI, 517) individua nella morte una liberazione dalla pena amorosa:

Se si potesse offrire                     Koishiki ni
la vita in cambio del tormento     inochi o kauru
della brama amoro                         mono naraba
il morire, mi sembra,                    shini wa yasuku zo
sarebbe invero facile.                    arubekarikeru.

Dalle poesie che abbiamo presentato fino a questo punto emerge decisamente l’effetto negativo di Eros, sentimento capace di annientare l’anima di chi ama, togliendo il sonno, la pace e quella serenità che, invece, dovrebbe procurare. Ovviamente, l’amore non comporta soltanto sofferenza, ma anche dolcezza e gioia. In altri termini, possiamo dire che è un sentimento caratterizzato da una forte ambiguità, nel senso che in esso sono presenti sentimenti opposti (amore-odio, vita-morte), aspetti che Saffo ha saputo cogliere molto bene in questo frammento (130 Voigt):

“Eros che scioglie le membra di nuovo mi sconvolge,
dolceamara (glykypikron) creatura invincibile…
Attide, per te è diventata cosa odiosa
il pensarmi, e voli da Andromeda.”

L’aggettivo glykypikron, una possibile creazione saffica, sintetizza tutto quel complesso di emozioni che abbiamo avuto modo di leggere nei versi greci e nipponici.
Dalla lettura dei 5 libri del Kokinwakashū dedicati al tema erotico si riscontra la mancanza di descrizioni fisiche della persona amata e, del resto, manca in essi un esplicita trattazione dell’amore fisico. Possiamo dire, pertanto, che la concezione di Eros presente all’interno del Kokinwakashū dia maggiore risalto all’immaginazione, a ciò che è visto magari solo di sfuggita, in altri termini, l’attenzione dei poeti, più che essere rivolta agli aspetti esteriori della persona amata, si concentrava sulle fantasie e sugli stati d’animo dell’amante in una completa fusione con l’elemento paesaggistico. L’innamoramento poteva scaturire (o così il poeta vuole farci credere) dalla rapida vista della donna, come è testimoniato da questa poesia di Ki no Tsurayuki:

La vidi appena, vagamente,                         Yamazakura
qual fiore di ciliegio di montagna,             kasumi no ma yori
attraverso la foschia:                                   honoka ni mo
e ora come mi struggo                                miteshi hito koso
nel desiderio di lei10.                                  koishikarikere (XI, 479)

oppure, più che descrivere un incontro reale con la persona che sia ama vengono composte poesie che hanno per argomento la presenza dell’innamorato in sogno. Tra questi componimenti11 sono indubbiamente da menzionare queste due poesie di Ono no Komachi:

Forse perché mi corico                           Omoitsutsu
sospirando per lui,                                    nureba ya hito no
mi è apparso nel sonno?                           mietsuramu
Avessi saputo ch’era un sogno,                yume to shiriseba
mai mi sarei svegliata.                              samezaramashi o. (XII, 552)

Da quando vidi                                          Utatane ni
nel sonno leggero                                     koishiki hito o
il mio adorato,                                          miteshi yori
cominciai a confidare                              yume chō mono wa
nel sogno fuggevole.                                tanomisometeki (XII, 553)

e questo componimento anonimo in cui si descrive il tormento causato dal sogno dell’amante:

Vuole, sembra, che io muoia                   Koishine to
di questa pena d’amore;                            suru waza narashi
la visione adorata                                      mubatama no
mi tormenta nel sogno                             yoru wa sugara ni
per tutta la notte, senza posa.                   yume ni mietsustu. (XI, 526)

Passando alla letteratura greca, possiamo riscontrare un’analogia tematica fra questi waka ed un passo tratto dall’Agamennone di Eschilo (420 segg.) e due epigrammi erotici dell’Antologia Palatina dedicati proprio al tema dell’amore nel sogno.
Nella tragedia di Eschilo, in un intervento del corifeo, viene lamentata la triste condizione di Menelao abbandonato dalla moglie Elena. Il poeta tratteggia l’immagine di un marito solo, consumato dalla nostalgia e dal rimpianto per la moglie. Non c’è sentimento di ira o vendetta, causa della guerra di Troia, ma semplicemente l’affetto ed il rimpianto per la donna amata. In tale contesto Eschilo descrive il complesso stato d’animo di Menelao: la dolorosa illusione di rivedere Elena nelle case ed il vano sogno erotico dell’amata:

“Fantasmi nel sogno (oneirofantoi) luttuosi (penthemones)
avanzano parvenze apportatrici di vana gioia.
Invano, quando uno crede di vedere le cose che rendono felici,
sfuggendo via la visione sparisce attraverso le mani, presto
seguendo i sentieri alati del sogno
(pterois opadoys’ hypnoy keleythois).”

Dei due epigrammi dell’Antologia Palatina incentrati sul tema del sogno erotico, il primo è di Marco Argentario (IX, 286), dove il canto del gallo sveglia dal sonno l’amante facendo così sparire l’immagine dell’amata:

Gallo, perché il mio amato sonno mi hai portato via?
La dolce immagine (hedy eidolon) di Pirra
dal letto se n’è andata via svolazzando (apoptamenon).
Questa sarebbe la ricompensa per quello che ti ho dato, disgraziato,
mettendoti in casa al comando delle galline che fanno le uova?
Per l’altare e lo scettro di Serapide, non più di notte
potrai alzare la tua voce, ma te ne starai
sull’altare del nostro giuramento (bomon hon omosamen)!

Il secondo epigramma, invece, di Meleagro (XII, 125), pur avendo come tema un sogno erotico di natura omosessuale, condivide con la poesia anonima giapponese il tormento e l’inutile sofferenza causata dal sogno amoroso:

Dolce nella notte di un ragazzo dal dolce sorriso
il sogno (enypnion), diciottenne, ancora in clamide, Eros
mi portò sotto le coperte. Ed io intorno alla sua pelle delicata
stringendo il petto vuote speranze raccoglievo.
Ed ancora adesso il desiderio (pothos) risvegliato
dal ricordo mi brucia dentro.
Davanti agli occhi sempre conservo quel sogno
cacciatore (hypnon agreyten echo) dalla figura alata.
O anima innamorata di un amore infelice,
smettila una volta per tutte
anche nei sogni di ardere per vuote immagini.

Meno seria, ma nella sostanza simile, è la situazione del Ciclope innamorato di Galatea ritratto nella lingua dorica del poeta ellenistico Teocrito (Idillio XI):

“O bianca Galatea, perché respingi chi ti ama?
Tu, più bianca che giuncata, più tenera che agnello,
più allegra del vitello, lucente più dell’uva ancora acerba:
perché passi di qui quando mi prende il dolce sonno
(glykys hypnos echei me),
e te ne vai se appena il dolce sonno mi abbandona (ane me),
e fuggi come la pecora che ha visto il grigio lupo?”12

Ma anche la Saffo rappresentata da Ovidio nelle Heroides13 è tormentata dall’apparire nel sogno di Faone (vv. 123-136) :

Tu mihi cura, Phaon, te somnia nostra reducunt,
sed non longa satis gaudia somnus habet.
Saepe tuos nostra cervice onerare lacertos,
saepe tuae videor supposuisse meos;
oscula cognosco, quae tu committere lingua
aptaque consueras accipere, apta dare.
Blandior interdum verisque simillima verba
eloquor, et vigilant sensibus ora meis.
-Ulteriora pudet narrare, sed omnia fiunt-
et iuvat, et sine te non licet esse mihi.
At cum se Titan ostendit et omnia secum,
tam cito me somnos destituisse queror;

Talvolta, invece, il sogno sembra confondersi con la realtà come testimoniano questi due componimenti appartenenti alle due tradizioni poetiche:

Fosti tu a venire                        Kimi ya koshi
o fui io ad andare:                     ware ya yukikemu
non posso ricordare;                 omōezu
era sogno o realtà,                    yume ka utsutsu ka
dormivo o ero sveglia?             nete ka samete ka. (XIII, 645)

Quando ci salutammo verso il vespro,
non so se in sogno o veramente (eite safos, eite onar),
Meride mi baciò. Sì, ricordo tutto il resto:
le sue domande e tutte le risposte.
Se il bacio è vero (ei gar alethes), come, fatto dio,
continuo a camminare sulla terra?14.(Anth. Pal., XII, 177)

Rimanendo nella dimensione di Eros quale sentimento instabile, vano e motivo di sofferenza si può riscontrare nelle due culture il topos dei giuramenti degli amanti vani ed inconsistenti o dell’inutilità di un amore non corrisposto.
Per quanto concerne la letteratura greca vanno riportati almeno due epigrammi: il primo è un noto epigramma di Meleagro (Anth. Pal., V, 8):

Sacra notte e lucerna, per i nostri giuramenti nessun altro
complice abbiamo scelto, ma voi!
Lui giurò di amare me, io di non lasciarlo mai.
Voi siete testimoni delle nostre parole.
Ma ora lui dice che quei giuramenti sono finiti nell’acqua
(horkia phesin en hydati keina pheresthai)
o lucerna, tu lo vedi tra le braccia di altre.

Il secondo testo di Callimaco (Anth. Pal. V, 6), invece, è tutto giocato sul fatto che i giuramenti degli amanti, essendo puntualmente infranti, non vengono puniti dagli dei nel momento in cui non sono rispettati. Rispetto al precedente epigramma presentato, quello di Callimaco ci presenta l’accondiscendenza della divinità verso la debolezza di un giuramento che nasce da persone, per così dire, prive della capacità di giudizio e, soprattutto, non consapevoli della serietà delle cose che sottopongono a giuramento:

Callignoto ha giurato a Ionide di non tradirla
mai con nessun altro, ragazzo o ragazza.
Ha giurato. Ma è vero quel che dicono: i giuramenti
d’amore non arrivano all’orecchio degli dei.
Ora lui brucia di passione per un ragazzo: della povera
sposina gli importa meno dei due bastoni.15

Nella tradizione giapponese, invece, un waka anonimo del Kokinwakashū (XI, 522) attraverso l’adynaton della scrittura nell’acqua indica l’inutilità di un amore non corrisposto:

Più vano dello scrivere            Yuku mizu ni
cifre sull’acqua                          kazu kaku yori mo
che scorre,                                hakanaki wa
è invero, amare una persona    omouwanu hito o
che non mi ama.                        omounarikeri.

Benché l’amore tra uomo e donna sia, ovviamente, quello più presente all’interno delle due tradizioni poetiche meritano di essere riportati anche alcuni componimenti dedicati all’amore dei genitori per i propri figli.
Una poesia del Manyōshū (V, 803), ad esempio, composta da Yamanoue no Okura, mostra quanto sia prezioso e importante l’affetto che si prova verso i propri figli:

“Oro, argento
pietre preziose:
su cosa far cadere
la mia scelta?
La più preziosa
delle gemme
non vale quanto
un bambino”.

Questi versi hanno un possibile parallelo in un frammento attribuito a Saffo (fr. 132 Voigt), dove la poetessa fa trapelare l’affetto per la figlia Cleide:

“Ho una figlia bella, simile ai fiori colore dell’oro
per aspetto, Cleide, il mio amore (agapata),
in cambio di lei io né la Lidia tutta né l’amabile…”

Vi sono poi due composizioni funebri dedicate al dolore per la morte di un figlio che contribuiscono indubbiamente a farci notare come, malgrado la distanza cronologica e la differente cultura, i sentimenti umani superano i limiti spazio-temporali. Il primo è un waka del già menzionato Yamanoue no Okura composto in occasione della morte del figlio Furubi e contenuto nel Manyōshū:

Egli è giovane e non                 Wakakereba
conoscerà, certo, la via!           michiyuki shiraji
Oh, potessi corrompere           maiwasen
il messaggero dell’aldilà          shitae no tsukai
perché lo porti sulle sue          oite tōrase. (V, 905)
spalle!

Il corrispettivo greco è un epigramma di Diodoro Zona contenuto nell’Antologia Palatina (VII, 365):

O tu che all’Ade
guidi la barca dei morti sull’acqua
di questa palude fitta di canne,
abbi pietà del mio dolore,
tendi la mano al figlio di Cinira,
ora che scende giù dalla scaletta.
Nero Caronte, aiutalo,
perché nei sandali inciampa il bambino,
e poi ha paura di posare i piedi
nudi su per la sabbia della riva16.

1 Cfr. anche XI, 491-494.
2 Lo spunto esiodeo è tratto dalla descrizione del gelido Borea che si scaglia contro le querce (Op. 507 segg.), mentre il legame omerico consiste nell’uso del verbo tinasso. Cfr. Od., V, 368 e VI, 43.
3 Si tenga presente che il testo originale giapponese gioca sul doppio senso di kiku (sentire e crisantemo).
4 Lett. “rannicchiata sotto il cuore (hypo kardien elystheis)” è un’eco di Hom., Od., IX, 433 dove Omero afferma che Odisseo era rannicchiato sotto la pancia villosa dell’ariete (lasien hypo gaster’ elystheis).
5 Cfr. C. Calame, I greci e l’Eros. Simboli, pratiche, luoghi, trad. it., Roma-Bari 1992, pp. 10-11.
6 Traduzione di G. Zanetto.
7 Traduzione di G. Zanetto.
8 Trad. di M. Cavalli.
9 Le oche selvatiche sono uccelli migratori che raggiungono da nord il Giappone d’autunno e ripartono all’inizio della primavera.
10 Questo waka fu composto traendo spunto dalla visita ad un luogo in cui la gente ammirava e raccoglieva dei fiori. Tra quelle persone doveva esserci una donna che deve aver colpito l’attenzione del poeta al punto da dedicarle ed inviarle questo waka.
11 Cfr. anche XI, 524-526 e XII 554.
12 Trad. di M. Cavalli.
13 Lo stesso discorso vale anche per Laodamia ed Ero. Cfr. Her. XIII, vv. 105-109 e XIX, vv. 57-66.
14 Trad. di S. Quasimodo.
15 Traduzione di G. Zanetto.
16 Trad. di S. Quasimodo. Va detto che, forse, il figlio di Cinira potrebbe essere Adone

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