«…e quei di Saffo obblia»: traduzione e invenzione da Leopardi a Pavese

GILDA POLICASTRO

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Glissare sull’identità storica di Saffo obliandone i versi, come nell’idillio terzo di Mosco tradotto dal giovane Leopardi, sarà operazione qui solo preliminare: in più netto rilievo nel seguito del discorso andrà la mutazione della poetessa del trauma amoroso in personaggio «interessante», verificata attraverso il canto leopardiano e il dialogo di Pavese che la vedranno protagonista. All’attributo di interessante va subito però assegnata l’accezione che, giusta la dicotomia agambeniana tra l’esperienza estetica antica e quella moderna, evidenzi in quest’ultima il prevalere di significati estrinseci e soggettivi e, nel caso specifico, valga a motivare a posteriori l’acquisizione di un personaggio reale alla leggenda, fino al completo sacrificio dell’uno in favore dell’altra. Così il valore di trauma, ancora di matrice agambeniana: con effetti per l’appunto traumatici avrebbe agito sul fruitore l’opera d’arte antica, imponendo la propria verità ed unità esteriore; focalizzandosi sullo spectare, l’arte moderna si sarebbe viceversa scissa in una valutazione razionale inevitabilmente orientata dalla conoscenza e dalla memoria culturale – quindi dal giudizio e dal gusto – e dall’altra parte in una soggettività artistica valevole come deciso «principio creativo»: l’opera d’arte non è più, per l’uomo moderno, l’apparizione concreta del divino, che lascia l’animo in preda all’estasi o al sacro terrore, ma una occasione privilegiata per mettere in moto il suo gusto critico1.Da una prospettiva non dissimile muoveva la duplice interpretazione del personaggio di Saffo, all’interno della mostra dedicata dall’artista tedesco Anselm Kiefer alle donne2. Il percorso fra inconsueti ritratti di eroine mitologiche o rivoluzionarie si apriva con l’installazione di un busto sovrastato da una serie di volumi impilati: in didascalia, il nome di Saffo veniva sovrapposto a quello di
altre donne antiche (Ariadne, Medea, Elettra) e solo in chiusura la poetessa recuperava la sua individualità, offrendosi separata allo sguardo in una figura solitaria di donna col busto chiazzato di diversi colori, sorreggente un unico volume questa volta aperto. Immediata la decodifica del segno: il deposito della memoria accatasta gli oggetti in un libro chiuso e li confonde; nel libro aperto la memoria perdura, come rimarca la varietà cromatica del busto. Questa breve incursione nella pratica e nell’estetica contemporanea valga a introdurre il tema specifico della trasformazione o dell’oblio: si ritorni ora indietro, al tempo che precede l’elaborazione di un mito personale ispirato a Saffo da parte dei due autori che si vengono a considerare, il tempo che precede cioè il mutamento di
Saffo da poetessa eolica a «protomartire della solitudine» o paradigma dell’estraneità prima in Leopardi poi in Pavese3. Si rivada, cioè, alla Saffo citata tradotta tràdita dal Sublime, da Catullo, Orazio, Ovidio, Foscolo, e, prima ancora, alla Saffo bruciata per motivi etici, ridotta a frammenti, tradìta.

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