CONTINUITA’ E DISCONTINUITA’ NELLA FILOSOFIA GRECA

24grammata/τεχνικός πολιτισμός

γράφει ο Roberto Renzetti, http://www.fisicamente.net/

Molte cose si possono apprendere da uno studio non dogmatico di un testo di storia della filosofia. Come fisico, debbo lamentare il fatto che, a fronte di una continua attenzione per argomenti come Etica, Politica, Metafisica, Logica…, non è quasi mai trattata la Fisica e, se lo è, in termini estremamente fumosi. Eppure, dalla lettura dei testi originali, appare che i filosofi (almeno fino alla fine del secolo scorso) hanno dedicato molte pagine a questo argomento.Vorrei provare, da fisico, a recuperare almeno parte della Fisica che si può rintracciare in antichi pensatori a partire dalla scuola pitagorica, con particolare riferimento al problema “continuità – discontinuità”.

LA SCUOLA PITAGORICA

L’elemento che più colpisce nel pensiero greco è l’enorme capacità di astrazione che era stata conquistata, capacità che sembra andare di pari passo con il crescere delle conoscenze di matematica. È certo comunque che non tutto nasce in Grecia; vi sono certamente stati influssi caldei e babilonesi ma, sfortunatamente, troppo scarsa è la documentazione disponibile per seguire le vicende della trasmissione di conoscenze tra questi popoli (e quanti altri li hanno accompagnati e preceduti).

Sta di fatto che si suole indicare come primo naturalista dell’antichità classica Talete di Mileto (Ionia). Di fronte a osservazioni sul mondo naturale circostante, a partire da Talete, si tentò di trovare una qualche entità che fosse all’origine di tutte le cose. Acqua che esce da una pietra , terra che affonda nell’acqua, acqua che diventa vapore, vapore che diventa nuvole, nuvole che rilasciano acqua, acqua che diventa “pietra” (leggi ghiaccio), acqua che spegne il fuoco, fuoco spento dall’acqua che diventa terra, fuoco che s’innalza nell’aria, aria che affiora dall’acqua in bollicine…

Ebbene, dall’inizio si cercò un qualche principio ordinatore di tutti questi fenomeni; era la ricerca (ancor oggi perseguita) di un qualche invariante in mezzo a qualcosa che ha l’apparenza del caos. Talete, appunto, pensò che questo principio ordinatore di tutto il mondo naturale fosse l’acqua. Anassimene pose invece a fondamento del mondo l’aria, Eraclito il fuoco. Di questi pensatori ionici ci resta ben poco: qualche frammento e alcuni passi riportati da altri autori, tra cui Aristotele. Insieme ad Anassimandro (il quale sostenne che, qualunque fosse questa entità primitiva, avrebbe dovuto essere infinita e avere caratteristiche aeriformi per poter penetrare dappertutto), essi rappresentano il primo nucleo di pensatori che pose l’esigenza della ricerca di un principio unificatore e ordinatore;.della realtà circostante.

Sulla stessa strada si mossero, una cinquantina d’anni dopo, Pitagora (571-497 a.C.) e la sua scuola. Questa volta il principio unificatore discendeva direttamente dalla matematica e, particolarmente, dall’armonia di certi numeri e certe proporzioni. Per questa scuola il numero è alla base di tutto: della musica, della geometria (anche se in questo campo incontrò difficoltà), della materia e addirittura degli stati d’animo. L’unità fondamentale – l’atomo – dei pitagorici è il numero inteso come un’entità con dimensioni, una monade. Quando si parla di numero occorre però precisare il senso che a questa parola davano i pitagorici. Tutto ciò che ci circonda è formato da punti materiali (le monadi) disposti in un dato ordine geometrico. La sistemazione spaziale di questi punti nell’ordine in cui si presentava era per i pitagorici il numero. Esso quindi era, più che un’entità matematica, un’entità fisica. Se ad esempio si avevano 10 punti disposti a triangolo (figura 1 a – per le figure vai in fondo all’articolo -), il 10 rappresentava un numero triangolare; se si avevano 9 punti sistemati su tre file di tre (figura 1 b), il 9 rappresentava un numero quadrato; se si avevano 20 punti sistemati ai vertici di un tetraedro, (figura 1 c), il 20 rappresentava un numero tetraedrico. Ogni punto monade è uguale a ogni altro; sono solo l’ordine e il numero dei vari punti monade che ci rendono conto della diversità degli oggetti che la natura ci offre.

S’intravede quindi lo scopo della fisica: studiare le proporzioni, le relazioni, il numero delle entità che costituiscono i vari corpi. Solo se si riesce a scoprire una relazione matematica che renda conto di come sono sistemate le monadi l’una rispetto alle altre si è in grado di conoscere la natura. Ma, oltre al numero, vi è un altro elemento alla base della costituzione dell’universo, l’armonia. Si tratta di un insieme ordinato che, allo stesso modo della musica, è armonico: solo certe proporzioni tra numeri, solo certe figure geometriche possono esistere; ed esistono solo quelle che sono armoniche e belle.

Al di là di ogni facile ironia, è la prima volta nella storia del pensiero che, alla base del mondo, viene posta un’entità “astratta”, un qualcosa che non è immediatamente riconoscibile da una ricognizione empirica del mondo circostante.

È il primo germe dell’interpretazione non ingenua del mondo, della speculazione teorica. Certo le cose andarono oltre rispetto a un segno che potremmo oggi proporci: in questa visione del mondo il primato lo avevano l’intuizione e la creazione speculativa; nessuno spazio era concesso alla scienza empirica.

Una grave difficoltà doveva però porsi sulla strada dei pitagorici: se ogni segmento è costituito da un numero – grande quanto si vuole ma finito – di monadi, sarà sempre possibile trovare un sottomultiplo comune a due segmenti, se non altro la monade stessa. Ma proprio a Pitagora è dovuto il teorema che permise di calcolare la lunghezza della diagonale di un quadrato. Se il quadrato ha lato d, la sua diagonale misurerà d.√2. Ciò vuol dire che il rapporto tra diagonale e lato del quadrato è √2, e cioè un numero non razionale ma irrazionale (che per la prima volta si presenta).

È oggi chiaro che questa difficoltà può essere superata solo con l’ammissione che sarà fatta da Euclide (323-283 a.C.) di “punto privo di dimensioni”. Ma la leggenda tramanda che questo segreto (la scoperta degli incommensurabili) fosse gelosamente custodito dai pitagorici. Si racconta che chi lo divulgò – Ippaso – fu punito dagli dei con la morte in un naufragio.

LA SCUOLA DI ELEA (SUD DELLA CAMPANIA)

Da questo momento la speculazione matematica prende il sopravvento sull’indagine empirica. Si tenderà a sovrapporre la logica alla scienza con la conseguenza di creare una sorta di strano mix tra fisica e metafisica che spesso, ancor oggi, ritroviamo. I primi artefici di questo processo furono i rappresentanti della scuola eleatica, a partire dal fondatore di questa scuola, Parmenide.

Secondo gli eleatici l’universo è un tutto pieno impenetrabile; di conseguenza è impossibile ogni movimento e, più in generale, ogni cambiamento. Il tutto prevede l’impossibilità di dividere la materia. Si tratta perciò di uno spazio pieno di materia con continuità, anzi lo spazio e la materia praticamente si confondono.

Può sembrare che questo spazio somigli a quello della geometria o, meglio, a quello della geometria dei pitagorici. Vi sono però due sostanziali differenze: da una parte lo spazio dei pitagorici era pieno di entità discrete (le monadi), dall’altra quello spazio era inteso come infinito, mentre qui abbiamo a che fare con uno spazio compreso da una sfera “perfetta”. È quindi evidente la polemica di Parmenide con la scuola pitagorica (dalla quale sembra che Parmenide provenisse): la materia, se c’è c’è; e se c’è, c’è dappertutto; è inutile pensarla localizzata in particolari punti; è inutile attribuirle qualità; essa è solo estensione; ciò che esiste è quindi solo estensione; niente può dividere la materia poiché ciò equivarrebbe ad ammettere qualcosa (ciò che divide) che esiste di meno; quindi niente mutamenti, solo illusioni dei nostri sensi.

A sostegno di queste tesi, oscure per la verità (ma ampiamente riprese da Descartes, Hegel, Heidegger…), intervenne un allievo di Parmenide, Zenone, (490-? a.C.), al quale si devono i famosi paradossi che ora proverò ad illustrare.

I paradosso – Il segmento.

Sia dato un segmento. Possiamo pensarlo costituito da infiniti punti senza dimensioni o da infiniti punti con dimensioni. Ma se si sommano infinite quantità che hanno per dimensione zero, si ottiene per risultato lo zero. Viceversa, sommando infinite quantità con dimensioni otteniamo un oggetto infinito. In ambedue i casi non abbiamo il segmento.

II paradosso – La freccia.

Una freccia scagliata da un arco occupa in ogni istante (indivisibile) uno spazio uguale alla propria lunghezza e dunque è ferma in quel luogo; ciò vuol dire che, istante per istante, la freccia è immobile, e quindi è sempre immobile.

III paradosso – Achille e la tartaruga.

Come introduzione a questo paradosso possiamo darne un altro: l’impossibilità per un viandante di raggiungere una data meta. Supponiamo che il tragitto da percorrere sia un segmento AB. Chi parte da A, prima di arrivare a B dovrà aver percorso la metà AC dell’intero tragitto; prima di percorrere AC dovrà aver per- corso la sua metà AD; prima di percorrere AD dovrà aver percorso la sua metà AE; e così via all’infinito. Conseguentemente ci si avvicina sempre più a B senza raggiungerlo mai.

Stesso discorso per Achille e la tartaruga. Il “pié veloce” compete in una gara di corsa con una tartaruga. Naturalmente, data la sua prestanza, concede a quest’ultima un vantaggio rispetto alla meta B. Quando Achille parte da A per arrivare a T dove si trova la tartaruga, quest’ultima si troverà in T’; quando Achille sarà arrivato in T’ la tartaruga si troverà in T”; e così via. Achille si avvicinerà sempre più alla tartaruga senza raggiungerla mai.

IV paradosso – Lo stadio.

Se in uno stadio si considera una palla in moto, dopo essere stata scagliata, considerandola rispetto a un punto fermo, essa andrà a una data velocità; considerandola rispetto a un altro punto mobile che va alla sua stessa velocità ma in verso opposto, essa andrà al doppio della velocità che prima le avevamo assegnata (“la metà del tempo è uguale al suo doppio”).

Facciamo ora alcune osservazioni.

Il primo paradosso apre evidentemente il problema della definizione del punto “matematico”.

Il secondo paradosso pone con efficacia il problema della definizione del moto. È chiaro che in un dato istante non si ha moto. Per poter parlare di moto si deve costruire una corrispondenza biunivoca tra punti dello spazio e istanti di tempo. Se, a diversi istanti di tempo, l’oggetto occupa lo stesso punto nello spazio, si dice che questo oggetto è immobile. Se, a diversi istanti di tempo, l’oggetto occupa punti diversi nello spazio, si dice che l’oggetto è in moto. In definitiva, dire che la freccia è ferma “a ogni istante” non significa dire che essa è “sempre” ferma.

Più in generale si può dire che ha senso parlare di velocità solo quando si considerino due luoghi dello spazio occupati in due tempi diversi da un dato oggetto. Se poi, come sembra più attinente con il paradosso di Zenone, si vuole parlare di velocità istantanea, ecco che c’imbattiamo in un classico concetto limite (problema di infinitesimi).

Il terzo paradosso è strettamente legato alla polemica con i pitagorici. Comunque l’affermazione che il segmento AB contenga infiniti punti non vuol affatto dire che il punto B sia situato all’infinito; a meno che, appunto, non si pensi ai punti estesi dei pitagorici.

In ogni caso, anche qui abbiamo a che fare con un tipico problema di limite (infinitesimi); è certamente vero infatti che i tratti da percorrere si fanno sempre più piccoli, ma è altrettanto vero che i tempi necessari a percorrerli si fanno sempre più piccoli. Lo spazio tende a zero (numeratore), il tempo tende a zero (denominatore), la frazione tende a un qualcosa di incomprensibile (fino a Leibniz e Newton), al rapporto O/O.

Il quarto paradosso che, insieme al secondo, vuol sostenere l’idea di Parmenide di inesistenza del moto (o della sua discutibilità) non è altro che una brillante introduzione a questioni di relatività del moto.

La conclusione che Zenone sembra trarre da questi paradossi è che, se risulta assurdo negare la molteplicità e il moto, altrettanto assurdo è affermarli.

Più in generale si può dire che tutti i paradossi nascono dalle difficoltà che pongono gli infinitesimi e gli infiniti, a cui si aggiungono altri due elementi: la non considerazione del tempo; la mancanza di un’univoca definizione di punto.

Merito fondamentale di Zenone è l’aver posto questi problemi così clamorosamente sul tappeto: i tentativi di soluzione dei paradossi, in tempi relativamente brevi, porteranno alla nascita di una definizione “rigorosa” del punto matematico (Euclide) [1] e di una definizione divergente di punto fisico, di punto materiale (Democrito).

Per quanto riguarda il problema al quale vogliamo dedicare maggior attenzione, le difficoltà che nascevano da infinitesimi e infiniti non rappresentavano altro che la difficoltà di definire il problema continuità/discontinuità della materia che costituisce il mondo.

Altro elemento che aggiungeva difficoltà era la mancata presa in considerazione di assenza di materia, cioè di vuoto. Ciò avrebbe probabilmente aiutato a comprendere quale elemento di separazione si dovesse considerare tra materia e materia (nell’ipotesi di materia discontinua). Quindi, da una parte il tutto pieno era un dato empirico, dall’altra, la non individuazione di qualcosa che non fosse materia e che avesse la proprietà di separare la materia poneva problemi a chi tentava la strada della ricerca (speculativa) di un principio unico alla base di tutto il mondo (principio fisico e non metafisico). Quest’ultima osservazione può far intendere come inizino a qualificarsi i diversi filoni di pensiero e come inizi a delinearsi la differenza tra idealismo (principio metafisico) e materialismo (principio fisico).

LA SCUOLA DEGLI ATOMISTI

Contemporaneamente alla scuola eleatica si sviluppa una scuola di pensiero che fa capo a Empedocle (Agrigento), il quale rappresenta l’elemento di transizione fra i vari tentativi di definire un elemento unificatore che lo precedettero, e la vera e propria scuola degli atomisti.

La teoria di Empedocle prevede quattro elementi: terra (solida), acqua (liquida), aria (gassosa), fuoco (ardente e consumatore). Dal mescolamento di questi quattro elementi in proporzioni diverse nasce il mondo e la sua varietà. Le forze che uniscono elementi diversi per formare le cose che ci circondano sono di due tipi: l’amore (forza attrattiva) e l’odio (forza repulsiva). Sembra si possa intravedere in Empedocle una sorta di concezione atomistica basata su quattro elementi: particelle impercettibili dei quattro elementi, particelle immutabili, si combinano o si dissociano tra loro; queste continue combinazioni e dissociazioni originano i cambiamenti che osserviamo (si deve notare che, opportunamente integrata, la teoria dei quattro elementi di Empedocle resse per 2000 anni, almeno fino ai tempi di Galileo).

Anassagora, di sette anni più vecchio di Empedocle, si muove sulla stessa strada, anche se con notevoli differenze. Anche qui si ha a che fare con un atomismo strano, un atomismo che non prevede il vuoto. Tanti corpuscoli, non solo di quattro tipi ma di varietà infinita, riempiono l’universo. Gli “elementi” di Anassagora sono quindi infiniti; ciascuno è costituito da tanti corpuscoli identici; ciascun corpuscolo è divisibile all’infinito; una Intelligenza (il Nous) ha impresso un moto rotatorio a questi corpuscoli intorno a un dato centro (la Terra); la forza centrifuga, così originata, li va a separare e a ricongiungere continuamente (in questo si può intravedere un primo abbozzo di quello che sarà il sistema cosmologico di Descartes e, per molti versi, di Huygens).

Furono però Leucippo (V sec. a. C.) e Democrito (460-360 a. C.) che impressero una svolta densa di conseguenze al problema della continuità/discontinuità, in stretta connessione con quanto era stato proposto in termini di paradossi da Zenone. Di Leucippo si sa ben poco: solo che era stato allievo di Parmenide e di Zenone e che fu poi, insieme ad Anassagora, maestro di Democrito (nella scuola da lui fondata in Tracia). Questa mancanza di notizie su Leucippo ci farà par- lare di Democrito, con l’avvertenza che la parte originale di Democrito non è distinguibile da quella di Leucippo.

Con questi pensatori, per la prima volta s’intuisce un mondo costituito da corpuscoli indivisibili (atomo-indivisibile). E proprio per denotare l’effettiva individualità di un atomo si postula l’esistenza di un vuoto che risulti elemento di separazione tra atomo e atomo. Si esce quindi dall’equivoco di corpuscoli costituenti una materia continua. La materia è ora discontinua; essa risiede nei piccolissimi e indivisibili atomi che sono separati da vuoto. La materia che ci appare estesa e continua è in realtà discontinua. È un qualcosa di poroso, con pori vuoti tra atomo e atomo (il concetto di poroso lo si può ritrovare anche nei pitagorici, ma in quel caso i pori erano pieni di altra materia, ad esempio aria). Le proprietà della materia sono poi le proprietà dei singoli atomi che la costituiscono (ciò si può intendere con la visione moderna che abbiamo di atomo: un atomo di rame è la più piccola entità che possiede tutte le proprietà del rame). Le forme degli atomi sono responsabili di alcune qualità secondarie (colore, sapore…) che noi osserviamo. Se, ad esempio, una sostanza è costituita da atomi sferici, essa ci darà la sensazione del dolce accarezzandoci dolcemente la lingua. Al contrario, se una sostanza è acida dovrà essere costituita da atomi a molte punte che, penetrando nella bocca, la “pungono” in varie partì dandoci la sensazione di acido. Il calore è invece spiegato con l’ammissione che il fuoco sprigioni degli atomi velocissimi; per render conto della loro estrema velocità questi atomi devono essere di forma sferica, la forma che meglio riesce a muoversi negli spazi vuoti lasciati da altri atomi. Se si volesse poi una spiegazione della maggiore o minore “gravità” (leggi peso specifico) di dati corpi, la si ritroverebbe nella minore o maggiore presenza di spazi vuoti tra atomo e atomo. E questa materia, l’universo, come sarebbe nata, come si sarebbe organizzata? Al principio, secondo Democrito, solo atomi e moto. Un’infinita varietà di atomi per forma e dimensioni (per Democrito è pensabile l’esistenza di un atomo grande come un mondo), in moto eterno nello spazio infinito, vuoto e privo di direzioni privilegiate. Moto, quindi, in tutte le direzioni dello spazio (è interessante osservare che in queste che parrebbero inoffensive affermazioni vi è un universo di problemi. Gli stessi seguaci futuri dell’atomismo democriteo si sentiranno in dovere di modificare le vedute del maestro.

Il problema era essenzialmente il seguente: che cosa fa muovere gli atomi? Poiché non vi era nessuna apparente ragione di ciò, contro le dure critiche aristoteliche Lucrezio assegnò agli atomi la proprietà peso: gli atomi cadevano all’infinito verso il basso – la terra – e solo deviazioni da questa verticale – clinamen – permettevano una serie di reazioni che avrebbero originato tutto ciò che ci circonda. Con questa sostanziale modifica se ne fa strada un’altra: la reintroduzione di direzioni privilegiate nello spazio, alto e basso, su e giù: come si vede, l’elaborazione lucreziana rappresenta un sostanziale passo indietro rispetto a quella democritea). Questo moto di atomi in tutte le direzioni fa sì che atomi diversi vadano a urtarsi; quando l’urto non è centrale, i due o più atomi che si sono urtati iniziano a girare l’uno intorno all’altro; altri atomi vanno ad aggiungersi a questa specie di vortice finché non si formano i mondi che ci circondano; mondi che, così come sono stati generati, possono corrompersi.

In definitiva: atomi non tali per la loro piccolezza ma per la loro indivisibilità, estesi, indivisibili, immutabili e impenetrabili, differenti tra loro solo per forma e dimensioni, qualitativamente uguali, in eterno moto nel vuoto lungo tutte le direzioni dello spazio; il moto di questi atomi è alla base di tutti i mutamenti sostanziali e qualitativi che osserviamo; un atomo non è né caldo, né freddo, né bianco, né dolce; di queste sensazioni, che sono soltanto soggettive, sono responsabili gli aggregati di atomi.

A fianco di ciò vi erano molte altre interessanti intuizioni (lo, saranno soprattutto a partire dal XIV secolo come argomenti dialettici contro la fisica aristotelica che iniziava a diffondersi in Europa):

– l’aria è costituita da minutissimi atomi in uno spazio ristretto;

– la pressione è originata dalla presenza di un elevato numero di atomi in uno spazio ristretto;

– il suono crea un moto ondulatorio delle particelle d’aria;

– i venti sono originati da differenze di pressione;

– la Via Lattea non è altro che la luce di tante stelle;

– prime idee evoluzionistiche;

– lavori di medicina ai quali si ispirò Ippocrate;

– lavori di matematica dai quali prese le mosse Archimede;

– gli atomi si scambiano forze solo per contatto (nell’urto).

Quest’ultimo punto è estremamente interessante perché non è altro che il coronamento della visione materialista e meccanicista di Democrito. Egli parte dall’affermazione: “Non si da principio [leggi causa] dell’eterno e dell’infinito”, che ben si lega con quella di Leucippo (l’unico frammento di lui rimastoci): “Niente si fa a caso, ma tutto avviene per ragione e necessità”. Ciò comporta un rigido determinismo, tutto in natura segue da cause meccaniche; inoltre, è inutile chiedersi’ il perché degli atomi e del loro moto: sarebbe come chiedersi qual è l’origine dell’infinito; conseguentemente: il mondo non ha bisogno di nessun principio ordinatore.

Democrito manifesta una visione democratica di grande apertura:

-“La povertà in regime democratico è da anteporsi alla cosiddetta prosperità elargita dai despoti”;

– “Il saggio non deve prestare ossequio alle leggi, ma vivere liberamente poiché ciò che sembra giusto non è tale [sempre]”;

– “Patria di uno spirito eletto è tutto il mondo”;

– “Chi usa contraddire e chiacchierare molto è inetto a imparare” [2].

Per queste e altre sue posizioni egli fu odiato da uno dei massimi filosofi dell’antichità, Fiatone, secondo il quale tutte le opere di Democrito dovevano essere bruciate. Questo avvenne puntualmente nel periodo imperiale: ciò che oggi sappiamo su Democrito è frutto di faticosissime ricostruzioni storiche [3].

PLATONE

Al di là di quant’altro ha elaborato Democrito, l’invenzione dell’atomo fisico è una prima risposta ai paradossi di Zenone. Pensando al primo dei paradossi, quello del segmento, è facile sostenere che, se si ha a che fare con un segmento fisico, esso sarà costituito da un numero, grande quanto si vuole ma finito, di punti fisici, e cioè di atomi [4]. Altri problemi rimanevano, e la risposta a Zenone sarebbe stata completata da Euclide (323-283 a. C.). Ma, prima di Euclide, s’inserisce l’opera di uno dei più prestigiosi pensatori dell’antichità classica, Platone (428-347 a. C.).

Ciò che noi vediamo, secondo Platone, è solo una copia sgraziata di ciò che esiste in un mondo ultraterreno, al di là dello spazio e del tempo. La perfezione ivi esistente potrà essere avvicinata dai mortali solo mediante l’azione del pensiero. In questa visione l’indagine teorica assume il primato sull’indagine scientifica (empirica), la scienza assume il primato sulla tecnica; nell’ambito delle scienze la matematica assume il completo primato; tutto ciò che è lavoro manuale merita disprezzo (siamo in una società di schiavi!).

Quindi la matematica rappresenta il modo migliore per avvicinarsi a quel mondo di perfezione che viene continuamente richiamato, anche nella pratica quotidiana. Quando noi tracciamo un segmento su una lavagna dobbiamo sapere che in realtà abbiamo disegnato uno sgraziato parallelepipedo (il segno del gesso sulla lavagna ha tre dimensioni); il segmento lo possiamo solo immaginare, così come possiamo solo immaginare ogni altra figura geometrica, anche se ci ostiniamo a volerla rappresentare. Il pensiero puro, solo quello e solo la matematica che si avvicina a quello, può permetterci un avvicinamento sempre maggiore a quel mondo di perfezione.

Per i nostri fini importa sottolineare che questo primato matematico fa sì che una qualunque ricerca sarà maggiormente soddisfatta dal ragionamento e dalla elaborazione matematica: tutto ciò che dovesse risultare un “toccare le cose” potrebbe risultare ingannevole. Inoltre c’è da considerare che una conclusione ottenuta per via matematica non abbisogna di nessuna verifica, è vera in sé. Quindi per avvicinarsi e scoprire la verità occorre abbandonare ogni empirismo.

Nell’ambito di questa visione e a suo coronamento viene assunta in pieno la parte della filosofia pitagorica che voleva il primato della geometria nell’ambito della matematica, quella dei numeri naturali e dei loro rapporti in divine e armoniche proporzioni.

Essa inizia con la definizione del problema: occorre distinguere tra ciò che è eterno e ciò che si genera e quindi si corrompe.

L’opera di Platone che meglio ci può far capire la sua visione del mondo naturale è il Timeo. Cerchiamo di seguirla per alcuni aspetti.

Ciò che è eterno deve aver avuto un qualche principio, poiché qualunque cosa che è lo è per qualche causa. Quanto alle cose sensibili, non c’è dubbio alcuno che esse abbiano avuto un’origine e che debbano avere una fine. Il mondo intero è stato fatto secondo un modello che si può comprendere solo con la ragione e l’intelletto; esso è un animale animato e intelligente generato dalla provvidenza divina (è interessante osservare che Platone è monoteista: tutti gli altri dei non sono che una banale emanazione dell’unico dio). Il mondo cosi generato è unico proprio perché è stato fatto secondo un modello, quello di un animale perfetto. Le prime cose che dio mise nella composizione del mondo furono fuoco e terra, ma poiché non è possibile che due cose si compongano bene senza la terza (significato soprannaturale di numeri con particolari privilegi), occorre ammettere che fra terra e fuoco vi sia un legame che li congiunga (si comincia a parlare di un qualcosa che in alcune religioni va sotto il nome di trinità).

La necessità del terzo elemento sarebbe ineluttabile in un mondo piano; ma qui ci troviamo in un mondo che ha una sua esistenza nello spazio; quindi, data la dimensione in più, occorre aggiungere un quarto elemento. Oltre al fuoco e alla terra occorre aggiungere acqua e aria (che gran disturbo doveva essere per chi adorava numeri come il 3, il 7, il 10, [si vedano i frammenti di storia del pensiero scientifico sulla valenza che era assegnata a questi numeri] incontrarsi con un 4! Esso doveva essere introdotto come necessità del 3 più uno).

Il mondo-animale aveva poi una forma indefinita e dio cercò di dargli la miglior forma possibile, quella sferica. E chi sollevasse problemi sulla stranezza di un tale animale troverebbe un’immediata risposta in Platone: a questo animale non servivano occhi per vedere perché al di fuori di esso non vi era nulla da vedere; non aveva orecchie perché non vi era nulla da sentire; non vi era aria che richiedesse un naso o una bocca; né aveva bisogno di organi che ingerissero ed espellessero elementi perché non vi era nulla da ingerire, digerire, espellere. Come si nutre allora l’animale? Mediante la sua corruzione interna! Allo stesso modo poi non servivano né mani né piedi. Gli fu assegnato l’unico movimento adatto, quello circolare. Un unico animale sferico in moto circolare su se stesso, non bisognoso di nessuna compagnia perché perfetto. All’interno del nostro animale sferico dio sistemò i pianeti con le loro orbite in modo che fossero rispettate le proporzioni di date armonie musicali (“divise sei volte l’ulteriore, facendone sette circoli diseguali secondo gl’intervalli del doppio e del triplo, che erano tre per ciascuna parte”).

Tutto ciò non bastava; occorreva la creazione del tempo per fare sì che ciò che era stato creato si dissolvesse insieme a quest’ultimo. E per creare il tempo servivano il sole e la luna, oltre a cinque altri astri in modo che il tempo avesse la sua scansione. Dopo un altro cenno alla trinità (“conviene paragonare alla madre quello che riceve, al padre quello donde riceve, al figlio la natura intermedia”), Platone passa a descrivere la sua straordinaria concezione “corpuscolare”. Inizia con l’affermare una cosa per molti versi cara ai pitagorici: ogni superficie piana è composta da triangoli. Tutti i triangoli sono fondamentalmente di due tipi: il triangolo rettangolo isoscele (angoli di 90°, 45°, 45°) e il triangolo rettangolo scaleno (angoli di 90°, 60°, 30°).

Ora, mentre per il triangolo rettangolo isoscele non vi sono problemi, per quello scaleno ve ne sono; essi possono infatti essere, al contrario degli altri, della più incredibile varietà. Com’è possibile allora decidere per quello con angoli di 90°, 60°, 30°? Semplicemente perché è (letteralmente) il più bello. E la bellezza di questo triangolo discende soprattutto dal fatto che, se ripetuto sei volte, realizza un triangolo equilatero (figura 2). Da questi due triangoli si generano le quattro entità che sono alla base della costituzione del mondo: terra, acqua, aria, fuoco. Per vedere come, occorre intanto osservare che quattro triangoli rettangoli isosceli, uniti tra loro attraverso l’angolo retto, formano un quadrato (figura 3). Ma qui siamo ancora al livello di “piano”; i quattro elementi occupano invece lo “spazio”. Come organizzare insieme dei triangoli in modo che diano delle figure solide? A Platone sembra evidente: attraverso i solidi regolari che, fra l’altro, erano stati da poco scoperti (il cubo, il tetraedro, l’ottaedro, l’icosaedro, il dodecaedro – figura 4). Vediamo come.

Anzitutto c’è da osservare che i quattro elementi non sono tutti generabili da una unica matrice. La terra ha caratteristiche differenti dagli altri tre elementi perché è formata dall’insieme di triangoli rettangoli isosceli e non scaleni:

-Una particella di terra ha forma di cubo, che si ottiene dall’unione di 24 triangoli rettangoli isosceli (4 per ogni faccia).

– Una particella di fuoco ha forma di tetraedro, che si ottiene dall’unione di 24 triangoli rettangoli scaleni (6 per ogni faccia).

– Una particella di aria ha forma di ottaedro, che si ottiene dall’unione di 48 triangoli rettangoli scaleni (6 per ogni faccia).

– Una particella di acqua ha forma di icosaedro, che si ottiene dall’unione di 120 triangoli rettangoli scaleni (6 per ogni faccia).

Le singole particelle possono dissolversi nei singoli triangoli che le compongono; questi triangoli potranno poi ricomporsi a loro piacimento, purché sia rispettata la regola di triangoli isosceli con triangoli isosceli e triangoli scaleni con triangoli scaleni. Ciò vuol dire che il triangolo elementare che è alla base dell’elemento terra non potrà far altro che ricomporsi con altri triangoli provenienti dalla dissoluzione di altre particelle di terra; i triangoli elementari che provengono dalla dissoluzione degli altri tre elementi, essendo tutti dello stesso tipo, potranno ricomporsi tra loro nei modi più vari, con la conseguenza che atomi provenienti da particelle di fuoco potranno entrare a far parte di particelle d’acqua. Più precisamente, dalla terra si può riottenere soltanto terra, mentre una particella d’aria può trasformarsi in due di fuoco (24X2=48), una particella d’acqua può trasformarsi in due particelle d’aria e una di fuoco, e viceversa (120=2X48+24).

Ci si potrebbero a questo punto chiedere le ragioni di ciò: esse risiedono tutte in principi armonici e legati a quei postulati non dimostrabili che sono alla base di molte filosofie antiche (che arrivano allegramente fino a noi). Intanto si ha a che fare con poliedri perché il mondo è tridimensionale, e un mondo siffatto è rappresentabile da una grandezza elevata al cubo. Supposto poi che la terra sia rappresentabile da un a³ e il fuoco da un b³, il fatto che servano altri due elementi (l’acqua e l’aria) è giustificato con il riconoscimento dell’esistenza di due medi proporzionali tra a³ e b³, che possono dare origine a una progressione geometrica: a³, a²b, ab², b³.

Perché poi la terra ha particelle a forma di cubo? Perché essa è la più immobile e plasmabile tra i quattro elementi e il cubo, essendo formato da triangoli ben saldi come l’isoscele, è tra tutti i solidi regolari il più stabile. L’acqua ha la forma meno mobile (l’icosaedro) e il fuoco la più mobile (il tetraedro); l’aria, essendo intermedia tra fuoco e acqua, deve avere una mobilità intermedia (ottaedro). Ma perché il tetraedro è il più mobile tra i solidi regolari? Perché ha il minor numero di basi e quindi è più tagliente e può infilarsi dove vuole con facilità. E poi, avendo il minor numero di basi, è di necessità la più leggera tra le particelle, e ciò si conviene al fuoco. In gradi decrescenti le stesse qualità si addicono agli altri elementi e, conseguentemente, agli altri solidi regolari.

L’insieme dei quattro elementi che compone l’universo deve essere sempre in moto, così da non lasciare mai uno spazio vuoto. Si tratta di un movimento nel tutto pieno, istantaneo e ciclico, fatto in modo da costituire una specie di vortice (tutto ciò verrà ripreso completamente da Descartes).

Nella concezione particellare di Platone è sfuggito uno tra i cinque solidi regolari, il dodecaedro. Esso doveva trovare un qualche posto e, in armonia con la sua visione complessiva, lo trova nel cielo, a rappresentazione dello Zodiaco, delle 12 costellazioni (tutto ciò lo si ritroverà ampiamente nel sistema del mondo di Kepler).

Il complesso “straordinario” di fisica platonica fu portatore di due fondamentali istanze: l’universo ha una struttura matematica; l’astronomia e la fisica sono concepite come entità teorico-matematiche.

Per concludere su Platone, un solo cenno ad alcune sue idee delle quali non ho mai trovato traccia nei miei studi liceali: lo Stato è diviso in caste e in questo Stato i “barbari” devono essere schiavi; ogni casta è rappresentata dalla purezza della sua razza, purezza che deve essere preservata; si deve credere negli dei, e chi non crede in essi va convinto ad opera dello Stato con i mezzi più severi, fino alla morte.

ARISTOTELE

Alla scuola di Platone si formò anche Aristotele (384-322 a.C.) che, per quasi vent’anni, stette a fianco del suo maestro.

La filosofia aristotelica si discosta però radicalmente da quella di Platone; essa è un complesso organico, molto ben organizzato in un insieme del quale è impossibile toccare una sola parte senza compromettere il tutto. Aristotele spaziò su tutti i campi del sapere discutendo a fondo ogni affermazione, ogni fatto empirico, ogni punto di vista precedentemente espresso da altri pensatori. Egli si distinse anche per questo da Platone, il quale trattò alcuni argomenti in modo superficiale (ad esempio l’astronomia, appena accennata nelle prime pagine del Timeo), anche se con uno stile che più volte raggiunge una liricità sorprendente, là dove Aristotele rasenta la pedanteria.

Esula comunque da queste note tentare di ricostruire anche la sola parte fisica dell’opera di Aristotele. Ci limiteremo invece a ricercare alcuni elementi di polemica tra Aristotele e i pensatori che lo hanno preceduto per arrivare a una semplice formulazione della sua teoria sulla costituzione della materia.

Aristotele inizia con il dare atto a Democrito di aver elaborato una teoria del discontinuo che si differenzia da tutte le altre. Democrito è il solo ad aver posto alla base della materia dei corpuscoli tridimensionali. Tutti gli altri, e particolarmente Platone, hanno ideato una discontinuità a base di superfici, di oggetti bidimensionali. Aristotele, pur rifiutando l’atomismo di Democrito, è più interessato ad esso che ai triangoli di Platone, non tanto perché consideri quella di Democrito una migliore teoria del discontinuo, quanto per l’attenzione che questi rivolge ai fatti empirici, cosa del tutto estranea al pensiero di Platone. E qui emerge uno dei cardini della fisica aristotelica: priorità dei fatti empirici, dell’osservazione [5], sul ragionamento, sulla matematica.

Più in generale, il rifiuto dell’atomismo nasceva in Aristotele dal fatto che sia Platone che Democrito non assegnavano alcuna qualità ai (supposti) costituenti ultimi della materia. Per Aristotele alcune qualità elementari debbono entrare direttamente in una qualunque teoria della materia. Cerchiamo di capire come.

Alla base del mondo Aristotele pone i quattro elementi di Empedocle (terra, acqua, aria, fuoco) e un nuovo elemento da lui introdotto, l’etere. Quest’ultimo doveva entrare nella costituzione di tutto ciò che si trovava al di sopra del cielo della luna, per render conto del fatto che tutto ciò che ivi si trova rimane sempre uguale a se stesso, senza essere soggetto a generazione e corruzione. Inoltre, al di sopra del cielo della luna, vi è un moto eterno che non subisce rallentamenti, e ciò è possibile attraverso un elemento diverso da quelli che ci circondano sulla terra. Tralasciamo però l’etere (che pure, per cammini diversi, giocherà un ruolo importantissimo nella fisica) e occupiamoci dei quattro elementi sublunari e della loro relazione con le quattro qualità elementari (caldo, freddo, secco, umido)[6]. Anzitutto queste quattro qualità elementari, in accordo con la loro definizione, formano coppie di opposti che non possono mai coesistere (il caldo non può coesistere con il freddo e il secco non può coesistere con l’umido). A ognuno degli elementi sono assegnate due qualità elementari, cosicché abbiamo:

– terra  =>  secca e fredda

– acqua => umida e fredda

– aria    => umida e calda

– fuoco => secco e caldo

(si noti che, in accordo con la visione aristotelica del mondo che lo vuole ordinato secondo i gradi dell’intrinseca nobiltà dei quattro elementi – in successione, terra, acqua, aria, fuoco – il passaggio da un elemento a quello che lo segue nella scala di nobiltà avviene mediante il cambiamento di una sola delle qualità elementari). Questo modo di definire le cose fa sì che, mediante lo scambio di almeno una delle qualità primarie nel suo opposto, è possibile che un elemento si trasformi in un altro (sono più facili gli scambi di una sola delle qualità primarie ma non sono esclusi gli scambi di ambedue). Cosicché gli elementi non sono immutabili ma trasformabili gli uni negli altri. La figura 5 riporta uno schema delle più probabili trasformazioni:

– terra <=> acqua

(scambiando secco <=> umido)

– acqua <=> aria

(scambiando freddo <=> caldo)

– aria <=> fuoco

(scambiando umido <=> secco)

– fuoco <=> terra

(scambiando caldo <=> freddo),

anche se ne sono possibili altre più complesse, come quelle che possono ottenersi partendo da due elementi che ne originano altri due, ad esempio:

acqua (freddo-umido) + fuoco (caldo-secco) = terra (freddo-secco) + aria (caldo-umido),

(per rendersi conto di questa reazione si pensi a quando si spegne un fuoco con dell’acqua: si ottengono cenere e aria).

Motivi cosmologici, e in particolare l’attrito del fuoco con il cielo della luna in rotazione, mescolano i quattro elementi che originariamente erano separati. Quindi i quattro elementi non si trovano mai allo stato puro:

– la terra domina negli oggetti pesanti

– l’aria domina negli oggetti leggeri

– l’acqua entra nella composizione dei metalli (per la spiegazione della fusione)

– il fumo non è altro che combinazione di fuoco e terra

– gli oggetti che galleggiano hanno una percentuale d’aria maggiore di quella diterra

– e così via.

Quando però ci chiedessimo se ci sono corpuscoli alla base dei quattro elementi, ci troveremmo in difficoltà a rispondere. Da una parte, per motivi che discendono dalla dinamica di Aristotele (non è possibile alcun moto in presenza di vuoto perché il moto esiste solo se vi è un motore che continua a spingere; ora, quando scagliamo un sasso, esso può continuare a muoversi quando si è staccato dal motore-mano solo perché l’aria, richiudendosi dietro di esso, continua a spingerlo), è esclusa l’esistenza del vuoto [7]. Con ciò è escluso quell’elemento di discontinuità che era alla base dell’ atomismo di Leucippo e Democrito (vi è il tutto pieno). Quanto è divisibile questo tutto pie- no?

Qui emerge un altro punto importante della filosofia aristotelica: la differenza concettuale che egli fa tra infinito in potenza e infinito in atto. Aristotele sostiene che un corpo percepibile è divisibile all’infinito e non divisibile all’infinito allo stesso tempo, senza che in ciò vi sia contraddizione. Infatti esso sarà divisibile in potenza ma non in atto. Ma anche qui sorgono problemi poiché – secondo Aristotele – anche supponendo di fare la divisione del corpo solo in potenza, risulterebbe che ogni punto di questo corpo sarebbe diviso e così, dato che questo corpo svanirebbe nel nulla, come sarebbe possibile ricostituirlo? D’altra parte è impensabile il dividere un corpo in ogni punto e quindi, a un certo istante, si dovrà pur porre fine al processo. Si dovranno dunque ammettere nel corpo grandezze indivisibili invisibili. Ma le cose non sono poi così chiare. Secondo Aristotele, questo modo di ragionare nasconde un errore poiché implica l’ammissione di una divisione contigua a una precedente divisione, e ciò è in disaccordo con il fatto che è impossibile considerare due punti contigui tra loro [8].

In definitiva, pur nell’ammissione chiara di tutto pieno e continuo, la soluzione del problema pare arenarsi su un fatto accessorio: la divisibilità della materia. Ma, poiché Aristotele ammette solo la divisione in atto, sembra ragionevole accettare l’esistenza di piccole parti che conservino le caratteristiche della sostanza che si sta dividendo (minima naturalia). Ma sul problema della divisibilità della materia Aristotele torna ancora più volte e, in particolare, nella polemica con Zenone. Egli inizia con il fornire la definizione di vari termini che successivamente gli saranno utili: continuità, contatto, consecutività, contiguità. Risultano in contatto i corpi le cui estremità coincidono. Un oggetto è consecutivo a un altro se non vi è alcun oggetto (dello stesso genere) inter-medio tra esso e quello a cui è consecutivo. Contiguo è invece ciò che, oltre a essere consecutivo, è anche in contatto. Il continuo è una determinazione particolare del contiguo, e c’è continuità quando i limiti di due oggetti mediante i quali essi si toccano (contiguità) diventano uno solo (continuità). Ora, da quanto detto è chiaro che il contiguo è consecutivo, mentre non tutto il consecutivo è contiguo; se poi c’è continuità ci deve essere anche contiguità; viceversa, ci può essere contiguità senza che ci sia continuità.

Fissate queste definizioni, Aristotele afferma l’impossibilità che qualcosa di continuo sia formato da atomi (indivisibili), ad esempio che una linea risulti formata da punti (poiché la linea è un continuo mentre il punto è un indivisibile). Ogni continuo deve essere formato da parti che siano sempre divisibili; in caso contrario si verificherebbe l’assurdo che un indivisibile è a contatto con un indivisibile in modo che quel continuo cessa di essere tale per diventare un contiguo. Allo stesso modo della linea, risultano continui anche grandezza, tempo e movimento. Ecco dunque un argomento contro Zenone (la freccia): tanto la grandezza quanto il tempo sono continui; se la grandezza è infinita ci vorrà un tempo infinito a percorrerla, se essa è finita ci vorrà un tempo finito. Anche la tartaruga poi non verrà raggiunta da Achille fin quando lo precede, ma verrà raggiunta con la sola ammissione che la distanza che percorre è finita e non infinita. Ritornando alla freccia, anche qui il paradosso nasce dall’ammissione di tempo composto da istanti (indivisibili); il che non è corretto poiché il tempo è continuo, e tutto ciò che è continuo non può essere composto da indivisibili. E così via, con questi ragionamenti (più complessi per la verità di come li ho riassunti) Aristotele demolisce ogni sistema filosofico che non sia il proprio. E nega anche se stesso nell’affermare che il mondo deve essere conosciuto a partire dai fatti empirici che si presentano.

CONCLUSIONE

Con la morte di Aristotele scompare uno dei massimi pensatori dell’antichità classica. Dopo di lui vi saranno altri filosofi della natura, anche di grande rilievo, ma nessuno avrà la vastità d’interessi, l’organicità e l’originalità di Aristotele.

I rivolgimenti politici originati dalle conquiste di Alessandro Magno spostano il centro scientifico dalla Grecia, Magna Grecia e Asia Minore verso Alessandria. Qui si saldano le tradizioni dei massimi pensatori dell’antichità classica con la cultura che era stata sviluppata dai babilonesi e quella che era penetrata dall’oriente. Ora non incontriamo più filosofi “complessivi”; la scienza inizia a separarasi dal pensiero filosofico; il filosofo lascia il posto al dotto. Alcuni nomi di questo periodo che vanno ricordati sono quelli dei matematici Euclide e Apollonio; degli astronomi Ipparco e Aristarco di Samo (primo sistema astronomico eliocentrico); del geografo Eratostene (misura del diametro della Terra); del grande Archimede di Siracusa, formatosi alla scuola di Alessandria.

L’eredità più propriamente filosofica dei massimi pensatori dell’antichità classica la ritroviamo nelle scuole di pensiero che si susseguono dopo la morte di Aristotele: la scuola scettica, epicurea (che riesce in seguito a penetrare in Roma e a rivaleggiare con la religione di stato e con il cristianesimo), stoica, neopitagorica, neoplatonica. A parte la scuola epicurea che ha caratteri peculiari [2], l’interesse per la scienza viene meno; la metafisica, la magia, l’astrologia, l’alchimia, assumono importanza sempre maggiore.

Gli ultimi scienziati (matematici, fisici e astronomi) che possiamo ricordare sono ancora di Alessandria: Tolomeo, Erone, Pappo e Diofanto (tutti vissuti tra il II e il III secolo d.C.). Quindi si assiste a un declino, in stretta connessione con la crisi e la caduta dell’impero di Roma e l’affermarsi del cristianesimo.

Per vari secoli l’attività principale dei pochi studiosi rimasti, soprattutto arabi, si volgerà al “commento” e alle trascrizioni dei maestri dell’antichità classica (particolarmente Aristotele).

Nel corso del XIII secolo verrà riscoperto prima Platone, quindi Aristotele e inizierà quella strada che, in connessione con i profondi cambiamenti economico- politico-sociali, porterà al Rinascimento e, quindi, alla nascita della nuova fisica [9].

In conclusione, così come siamo debitori a Platone della costante rivendicazione dell’uso della matematica per una vera conoscenza scientifica, altrettanto dobbiamo ad Aristotele per il suo rivendicare il primato di ricerche empiriche accompagnate da elaborazione teorica (la logica). Per altri versi, Platone aveva in dispregio le operazioni manuali, tecnologiche ed empiriche, così come Aristotele trascurava completamente la matematica ai fini della conoscenza della natura. Ci vorranno 2000 anni ma, quando queste due tradizioni si salderanno (unitamente a un cambiamento globale dei riferimenti [10], nascerà l’approccio moderno alla comprensione del mondo.

BIBLIOGRAFIA

F. ENRIQUES, G. DE SANTILLANA, Compendio di storia del pensiero scientifico, Zanichelli (1973).

F. ENRIQUES, M. MAZZIOTTI, Le dottrine di Democrito d’Abdera, Zanichelli (1948).

B. FARRINGTON, Scienza e politica nel mondo antico. Lavoro intellettuale e lavoro manuale nell’antica Grecia, Feltrinelli (1976).

S. SAMBURSKY, The Physical World of Late Antiquity, London(1962).

E. J. DIJKSTERHUIS, Il meccanismo e l’immagine del mondo, Feltrinelli (1971).

U. FORTI, Storia della scienza, Dall’Oglio (1968).

G. GIARDINI, Lucrezio, Accademia (1974).

A. MIELI, El mundo antiguo, griecos y romanos, Espasa-Calpe (1952).

G.E.R. LLOYD, La scienza dei greci, Laterza (1978).

Opere originali consultate, oltre a quelle riportate nel testo:

PLATONE, Timeo-Crizia-Minosse, Laterza (1928).

ARISTOTELE, Generazione e corruzione, Boringhieri (1968).

ARISTOTELE, Fisica. De Cacio, Laterza (1973).

ARISTOTELE, Metafisica, Sarpe (1985).

NOTE

[1] Euclide (secondo Proclo: 323-283 a.C.) si formò sia su Platone che su Aristotele, ma fu un platonico convinto. La sua geometria, che in gran parte si studia ancor oggi a scuola, è probabilmente il prodotto più esemplificativo del mondo platonico delle Idee. Nonostante l’enorme lavoro di assiomatizzazione a lui dovuto, tutti gli storici sono concordi nel non assegnare a questo matematico una grande originalità (bensì, e non è poco, la raccolta e la sistemazione di tutto ciò che già era conosciuto). Nei suoi Elementi, Euclide definisce come punto “colui che non ha parti”, evitando così le polemiche degli aristotelici (vedi più oltre) e nel contempo non risolvendo nulla, ma iniziando ad assegnare alla definizione di punto il valore di postulato. Nella geometria dunque il punto, a partire da Euclide ma soprattutto ad opera di Leibniz e dei successivi fondatori dell’analisi matematica, assume il ruolo di concetto primitivo che gode delle proprietà dei postulati nei quali interviene. Alla stessa stregua di postulato vanno considerate le definizioni di retta (che contiene infiniti punti) e segmento (che contiene infiniti punti). La storia del concetto di punto va di pari passo con quella del concetto di numero. In particolare, quando si definirà il numero reale come sezione del campo razionale, ci si avvicinerà sempre più alla “comprensione” del concetto di punto. Ma occorreranno molti anni.

[2] Uno tra i seguaci di Democrito fu Epicuro (342-280 a.C.). Mi pare indispensabile dire due parole su questa rilevantissima personalità che, purtroppo, conosciamo solo attraverso l’aggettivo “dispregiativo” di epicureo. Epicuro ammise alla sua scuola, il Giardino di Atene, sia schiavi che donne (tra cui cortigiane). Egli era guidato da un principio generale: “Vana è la parola di un filosofo che non allevia qualche sofferenza umana”. E sosteneva che una vera conoscenza della natura delle cose è il miglior rimedio per i mali dell’umanità. Inoltre il sistema degli atomi serviva per dare spiegazioni naturali di fatti, contro ogni superstizione (dei, pene dell’anima, viscere, volo degli uccelli, stelle, sogni…). Ebbene, Epicuro è stato inviso per secoli come portatore di “piaceri”. Questi piaceri non erano altro che la LIBERTÀ DI PENSIERO. Il senato di Roma, nel 173 d.C, espulse gli epicurei perché avevano introdotto (?) i “piaceri” nel caput mundi. Già nel secolo scorso si cominciò a ristudiare seriamente il pensiero di questo grande. Martha nel 1860 ebbe a scrivere: “Ancor oggi, quando pensiamo all’educazione del popolo dobbiamo pensare ad elevarlo all’epicureismo nel campo della fisolofia naturale”.

[3] Su questi aspetti si può vedere, oltre al testo “De Rerum Natura” di Lucrezio, anche G. Giardini, “Lucrezio”, Accademia (1974) e B. Farrington, “Scienza e politica nel mondo antico – Lavoro intellettuale e manuale nell’antica Grecia”, Feltrinelli (1976).

[4] Questi problemi, che erano stati posti per la prima volta con chiarezza da Zenone, sono in realtà ciò che va oggi sotto il nome di composizione del continuo. Sempre in riferimento al paradosso del segmento e con linguaggio moderno si può dire:

Se un segmento lo pensiamo come divisibile in un numero crescente di parti, arbitrariamente grande ma mai infinito (infinito potenziale), allora le parti che abbiamo preso in considerazione saranno piccole a piacere ma mai nulle, cioè sempre dotate di una misura (infinitesimi potenziali). Se invece pensiamo il segmento come costituito da un’infinità attuale di parti, queste dovranno essere prive di dimensioni, dovranno cioè essere punti matematici (infinitesimi attuali) e non segmentini. La strada per risolvere questa apparente (?) inconciliabilità tra visione fisica e matematica sarà lunga e dovrà passare attraverso gli sviluppi dell’analisi matematica. Ancora gli infinitesimi introdotti da Newton e Leibniz presenteranno una contraddizione: essi non sono punti privi di dimensioni, sono piuttosto quantità estremamente piccole non misurabili e insieme non nulle. Rimane comunque un altro problema: che significato si può dare al rapporto tra due infinitesimi? Inizierà Euler a dar soluzione alla questione introducendo il concetto di funzione; continuerà D’Alembert introducendo il concetto di limite; darà una prima risposta definitiva Cauchy mediante la trasformazione dell’infinitesimo da quantità fissa ma evanescente in variabile, e più precisamente nella variabile che tende a zero.

[5] Va sottolineato che ciò che Aristotele considera come esperienza è la mera osservazione di ciò che ci circonda. Anch’egli aveva in disprezzo tutto ciò che era contatto diretto con la “materia”.

[6] Le qualità elementari o primarie per Aristotele debbono avere le seguenti caratteristiche: (1) essere sensibili al tatto; (2) essere suscettibili di originare cambiamenti qualitativi; (3) formare coppie di opposti.

[7] Nella sua “Fisica” Aristotele sviluppa una dura critica contro l’ammissione di esistenza del vuoto. Il fatto che lo spazio per Democrito è un vuoto nel quale sono sistemati gli atomi con possibilità di spostamento in tutte le direzioni (spazio omogeneo e isotropo, diremmo oggi), fa dire al finalista Aristotele, che aveva elaborato la “teoria dei luoghi naturali”, che gli atomi di Democrito non saprebbero dove andare non trovando né un su né un giù, né una destra né una sinistra… Resterebbero quindi immobili (“non è possibile che neppure un solo oggetto si muova, qualora il vuoto esista”). Inoltre, se vi fosse il vuoto, non si capirebbe perché un oggetto scagliato dovrebbe fermarsi qui piuttosto che lì. E ciò fa concludere ad Aristotele con l’enunciato, da lui ritenuto assurdo, del principio d’inerzia: “Sicché l’oggetto o dovrà restare in quiete ovvero necessariamente dovrà muoversi all’infinito”. Infine: “Se si ammettesse il vuoto, tutti i corpi avrebbero la medesima velocità [ad esempio, di caduta]: il che è impossibile” (e ciò viene ricavato da Aristotele dall’osservazione che uno stesso oggetto si muove più o meno velocemente a seconda della densità del mezzo che attraversa e – viceversa – che, a parità di densità del mezzo, oggetti di “peso” diverso si muovono con velocità direttamente proporzionali ai loro pesi).

[8] Si veda più oltre, nella polemica contro Zenone, come è definito il contiguo.

[9] R. RENZETTI, Giordano Bruno anticipatore di Galileo, “Sapere”, n. 6 (1984).

[10] In particolare occorre notare che all’epoca della rivoluzione scientifica il lavoro manuale, l’artigianato, avevano acquistato dignità. Lo studioso inizia a mettere mani su oggetti e strumenti. La ricerca empirica acquista un significato diverso da quello (osservazione) che le aveva assegnato Aristotele. E la scienza inizia proprio quando si inizia a “sporcarsi le mani”.